venerdì 25 marzo 2011

La prima domenica (ovvero, è giunta la mia ora?)

Il viaggio in pulman non sarebbe neanche malvagio se la notte in bianco e l'ora troppo mattutina non portassero con sè gli inevitabili scompensi. Ma se anche ad uno riuscissi a porre rimendio, magari assumendo una tonnellata di valium, per l'altro non avrei alcuna speranza. Occorreva comunque alzarsi, tanto valeva non pensarci.

Il pulman CAI faceva la sosta colazione ad un'ora in cui il popolo italiano era ancora in gran parte tra le braccia di Morfeo. Adoravo quella sosta perchè oltre a consentirmi di inglobare cappuccino e brioche, serviva a spezzare la monotia del viaggio che, oltre nello spirito, ti incrocchiava nel corpo. Scendere, fare quattro passi, assolvere una consuetudine fisiologica e reintegrare subito i liquidi sotto forma di cappuccino, era un sogno al quale nessuno avrebbe rinunciato. Se non fai soste il tuo solo pensiero è arrivare il prima possibile. Se fai una sosta... e non ripartire mai! Al bar ci si ricordava dello sci solo perchè si era vestiti in maniera alquanto strana, non era carnevale e fuori faceva un tanticello troppo freddo. Erano solo questi tre elementi, ogni volta, a tenerci ancorati alla realtà.

Il mio primo pensiero, una volta giunto a destinazione, era sempre lo stesso: trovare dove affittavano sci e scarponi. La mia illogica costanza in questa dispendiosa pratica credo mi abbia portato, nel corso degli anni, ad aver raggiunto un tale livello di demenza da poter essere paragonato a chi ancora crede che in Berlusconi vi sia un solo grammo di innocenza. La spesa raggiunta in questi anni è stata tale che, con ogni tranquillità, avrei potuto comprarmi l'intera attrezzatura nuova! Più una villa a Camogli.

La prima volta che misi gli sci fu al liceo. La seconda, diversi anni dopo. E questo ritmo intenso di pratica sportiva fu mantenuto per i non pochi anni che seguirono. Mentre guardavo le piste non potevo non pensare che una tale esperienza sciistica era la base sulla quale avrei poggiato le ore a seguire. Deglutii. E visto che faceva un poco freddo, ne approfittai e mi strinsi un po' più dentro quel presagio di morte che mi aveva appena avvolto. Visto che c'era...

La conoscenza dell'attrezzatura più o meno ricalcava quella dello sport che rappresentava: le bacchette servivano a spingersi quando si era in piano, gli sci a farsi del male quando non si era in piano e gli scarponi, due tagliole assassine avvinghiate ai piedi, a darti quell'aria giusto un poco goffa quando si camminava. Altri utilizzi, sino a quel momento, non ne avevo scoperti.

La prima giornata del corso sci CAI prevedeva la selezione. Naturale, pensai io, perchè visto il numero dei partecipanti, tutti vivi alla fine non si poteva arrivare...

Fin quando non hai gli scarponi ai piedi e gli sci in mano, l'inconsapevolezza mista ad incoscienza, a volte quasi spavalderia, sono i sentimenti con i quali hai più a che fare. Ma una volta inforcati gli scarponi e, con non pochi sforzi, messi in spalla gli sci, cercando di evitare che ad ogni passo si aprano uccidendo il bimbo che ti sta passando di fianco... l'aria spavalda e speranzosa che alla fine si, cosa vuoi che sia 'sto sci, scompare totalmente lasciando negli occhi dei poveri avventori la consapevolezza che un rito macabro si sarebbe di lì a poco consumato: la tua fine. Chi ancora riusciva a mantenere accesa una flebile luce di speranza, in un moto di ipocrisia disumana, si attaccava disperatamente a qualunque forma di religione, anche la più occulta. Io ovviamente, ero tra questi...

Il primo attacco dello scarpone allo sci era rappresentativo del famoso detto "avere un piede nella fossa". Il difficile era, per l'intera giornata, impedire che ci entrasse anche il resto del corpo. Un piedino ci poteva stare. Era accettato anche perchè inevitabile. Ma il resto del corpo no, quello nella fossa proprio non ci doveva andare. Ed era con questo spirito di serenità interiore che ci accingiavamo tutti a cominciare quella bellissima prima giornata...

mercoledì 23 marzo 2011

Alle 4:00 (sharp!)

Ero ad una conferenza su non so cosa la prima (ed unica volta) che impattai con questo termine inglese: sharp. Ricordo davvero poco di quella giornata, nè come ci finii nè come finì. Ricordo solo che ci andai con una fanciulla verso la quale provavo una più che giusta adorazione. E questo potrebbe in effetti suggerire qualcosina riguardo alle motivazioni per le quali mi trovavo lì.

Ero assorto in uno stato contemplativo tutto preso ad incamerare il maggior numero di nozioni che quella conferenza così abbondantemente elargiva quando, tutto d'un tratto, il mio stato di assorbimento intellettuale, che per soli insignificanti aspetti era assimilabile a quello di morte apparente, deve aver subito un improvviso scossone, portandomi da un livello di coma ad uno giusto un poco più presente.

"In punto".

Due occhi felini mi squadrarono per un istante mentre una voce distaccata ma angelica si prodigava ad inserirmi nuova nozione nella cavesa. Sarà che ero appena tornato da uno stadio di forte concentrazione, sarà che la fanciulla proprio quel giorno decise di mettere una gonnellina sbarazzina (che di certo non aiuta l'attenzione), ma io lì per lì non collegai bene i due avvenimenti. Valutata bene la situazione comunque decisi che non fosse il caso di dare sfoggio della mia intelligenza e produrmi in un trogloditico "ehhh???" così assunsi un'espressione di seria comprensione e, guardandola dritta negli occhi, a labbra strette e sguardo meditativo, in sincrono con un singolo assenso della capoccia ci piazzai un astuto mugolio che ben si presta in queste occasioni.

Come mio solito, ma a ben vedere anche peggio del mio solito (ma solo perchè il ricordo della gonnellina aveva monopolizzato buona parte della mia capacità elaborativa) ci impiegai un numero disumano di ore per comprendere cosa la fanciulla mi avesse detto e cioè che sharp, in inglese, significa "in punto". E la sveglia CAI, la domenica mattina, doveva essere necessariamente messa alle 4:00. Sharp!

Capii subito come affrontare la cosa ed escogitai un piano bellico di sveglia che non brillava magari per intelligenza ma in quanto ad efficacia non lo batteva nessuno! Non dormivo. Mi è geneticamente impossibile riuscire a prendere sonno se so che mi devo svegliare ad un'ora così assassina. Semplicemente resto lì, a letto, ad attendere vigile il suono della sveglia. Non mi riesce di addormentarmi e siccome sono un ottimista per natura, so che non mi riuscirà mai. Ed un disadattato dissociato invertebrato come me ha un solo modo di passare una nottata sveglio: in chat.

All'epoca chattavo da fanciulla, perchè richiede uno sforzo minore in termini di aspettative. Ad una fanciulla, in chat, si dà subito un credito di intelligenza. A priori. Un fanciullo invece la deve dimostrare. Sempre. Ma per quanto le ore notturne non abbiamo mai scalfitto un neurone delle mie facoltà intellettive, anzi, caso mai le migliorano, il dover comunque dimostrare qualcosa reca sempre un certo livello di affaticamento. E fu così che per ozio della zucca, mi trasformai in fanciulla.

Tra le molte chat di quel periodo che comunque, malgrado la mia spiccata indole femminile, poco si distaccavano dai soliti rituali delle mie stesse al maschile, ovvero insulti, anatemi e auguri di morte di ogni tipo, più spesso che con altre mi trovavo a chattare, sino a tarda serata, con una moglie mamma di due bimbi. Per spirito di aggregazione, mi sembrò carino che anch'io avessi due bimbi piccini. E così, mi ritrovai mamma...

Non era raro che ci scambiassimo simpatici aneddoti sulla nostra progenie, racconti di birbonate, birichinate e di quei piccoli gesti che, se commessi dal proprio bimbo, diventano per una madre un qualcosa di infinitamente ilare. Per me quelli erano i momenti più difficili perchè, devo ammetterlo, non è che sia proprio una scienza in fatto di bimbi e quelle, per fortuna, poche volte che non potevo esimermi dal raccontare anch'io qualcosa, più che parlare della realtà, mi sembrava ogni volta di dover varcare le porte della fantascienza. Io, che se vedo un bimbo di due anni lo posso con tutta tranquillità scambiare per uno di sei, in quel periodo mi devo essere espresso in un tale bestiario di inettitudini educative che quella povera mamma avrà di certo pensato che fossi una alcolizzata, cocainomane e con un sicuro passato di meretrice. Se poi ci aggiungiamo un dichiarato atteggiamento saffico... il quadro era davvero completo :|

Il pulman CAI sostava davanti al McDonald's di Loreto in un'ora in cui i baldi giovani concludevano una magnifica nottata mentre noi ci apprestavamo a cominciarne un'altra. Io più o meno stavo nel mezzo.

La puntualità era d'obbligo e l'imbarco rapido. L'attrezzatura andava posta negli appositi spazi sotto il pulman. Sci da una parte, scarponi dall'altra. Gli umani di sopra. Anche se a me di umano, una volta sul pulman, restava ben poco. Il sonno ormai aveva rotto gli argini innondandomi la mente di un torpore tale da lasciarmi attive solo le funzioni cerebrali più primitive, la più urgente delle quali era dormire. Con la mia ridotta capacità motoria ed uno sguardo che lasciava intendere una affinità intima con l'alcolismo, cercavo il posto che meglio mi ispirasse tranquillità e mi ci piazzavo sopra nella speranza che uno stato di incoscienza totale mi rapisse e mi riportasse su quel pulman quando ormai gran parte del viaggio era andato. Il che non accadeva mai! In verità, lo stato in cui piombavo era in effetti quello che meglio di altri mi rappresentava, ovvero di semi subnormalità intellettiva con rapidi passaggi tra il dormiveglia e le allucinazioni. E questa agonia non faceva altro che aumentare notevolmente la pesantezza del viaggio perchè avere sonno e non riuscire a dormire è molto peggio di non riuscire a dormire perchè non si ha sonno.

Le prime luci dell'alba, unite al fatto che cominciavo a vedere il mio vicino di posto come una enorme tazzina da capuccino, erano le prime avvisaglie che di lì a poco ci sarebbe stata la tanto agognata sosta colazione, che rappresentava definitivamente la fine della nottata e l'inizio di una nuova giornata.

Ma questa è un'altra storia e noi voltiamo pagina.

giovedì 17 marzo 2011

Un giorno da CAI (ovvero, come tutto ebbe inizio...)

Mi trovavo nel mezzo del cammin di nostra vita, incerto sul divenire ma senza alcun dubbio sul divenuto. Con lo sguardo teso in avanti, il panorama che mi si presentava sembrava essere il riflesso di ciò che avevo dietro. "Qui è necessario un cambiamento! mi dissi, "imparo a sciare." Ora, quali fossero le ragioni che mi spinsero verso una tale scelta, ancora oggi le ignoro completamente. Ciò che invece non ignoravo ma che anzi avevo ben chiaro nella mente era che a ben altre necessità di cambiamento avrei dovuto dare ampissima precedenza e che una logica di scelta, se mai vi fosse stata, senza ombra di dubbio mi avrebbe collocato nel mondo della tossicodipendenza. A mio sostegno però posso dire che in quel momento devo aver dato maggiore importanza alla sostanza piuttosto che alla forma. Era necessario un cambiamento. Perchè non quello?

Risolto il primo punto della questione, ovvero cosa cambiare, restava da affrontare il difficile compito di come realizzare tale cambiamento. La mia conoscenza della montagna, sino a quel momento, era alquanto approssimativa o, per dirla in una maniera più concreta, era scolastica, poco applicata. Sapevo dell'esistenza di monti e catene varie. Sapevo, per esempio, che vi erano un Monte Bianco ed uno un po' più estroverso che era rosa. Anche Alpi e Appennini erano concetti ben assimilati, ma la vita che lì sopra si consumava era un traguardo sul quale la mia capoccia non si era mai adeguatamente soffermata. Si richiedeva un salto evolutivo niente male e, una volta tanto, visto che si trattava di montagna, era verso l'alto. Il destino stava lavorando bene...

Cominciai un serio censimento cerebrale alla ricerca di qualunque informazione che nel corso degli anni si fosse insinuata nel capoccio e che avesse una qualche minima attinenza con la montagna ed il solo nome che ne uscì fu "Club Alpino Italiano". Confesso di aver ripescato anche "Alpitour" e "Touring Club", ma un minimo di cognizione di causa ha provveduto ad una giusta selezione.

Il piano fu portato a compimento! ora non restava che realizzarlo...

Il primo impatto col mondo CAI, più che un senso di crescita me ne donò uno di perdita: pagai. La stagione sciistica si prospettava promettente ed in sede c'erano fermento e concitazione per l'apertura delle iscrizioni ai corsi. Io, come mio solito, ammetto di non esserci andato con una adeguata preparazione psicologica e malgrado avessi inteso che era necessario recarsi in sede per espletare le dovute beghe burocratiche, non mi spinsi a chiedere esattamente a quanto sarebbe ammontato l'intero esborso monetario. Tra l'iscrizione ad un club privato e quella ad un corso di sci, il tutto, quanto sarebbe stato?

Com'è d'obbligo in questi casi, quando non si ha la ben che minima idea di quello a cui si sta andando incontro, deliri di natura sociale - a tratti quasi parrocchiale - è il minimo che ti possa capitare. E più ci si avvicina alla meta più le convinzioni divengono certezze. Già appena uscito di casa, cominciò il mio delirio:

"ma si, che vuoi che sia, è un ente che vuole promuovere la conoscenza e l'amore per la montagna. Non è mica una roba a scopo di lucro."

Appena entrato in metropolitana ebbi il primo ricaro di ottimismo e cominciai a pensare ad eventuali donazioni, ma solo nel caso in cui mi fossi trovato veramente bene. All'altezza del Duomo invece avevo già sviluppato un iniziale progetto per la raccolta fondi a favore del CAI. Ma fu solo sulle scale dello stabile, mentre salivo per raggiungere la sede, che il delirio ebbe il suo culmine completo. In preda a stati divinatori avevo già risolto i problemi di 15 comunità montane e come un moderno mecenate ora mi stavo accingendo a prestare il mio aiuto ad un povero ente benefico che me ne stava facendo richiesta. Entrai.

"Buongiorno, vorrei iscrivermi al corso di sci".

"Sa già tutto?" mi chiese una gentile signora.

"No".

"Le passo allora il programma completo".

E pure i moduli per le donazioni, baby, pensai.

Il programma era molto chiaro e con delle belle uscite. Di nome, quelle località, le conoscevo quasi tutte e questo era sufficiente a collocarle alla voce "posti famosi". Il che non era male. Se montagna doveva essere, non guastava mica che fosse montagna famosa e magari fighettosa. Almeno così avrei espanso le mie possibilità di conversazione anche ai monti.

C'era scritto tutto: il necessario da portare per effettuare l'iscrizione, le varie raccomandazioni, la durata delle lezioni, information di varia naturation e... e... MINCHIA... il costo. Un decadimento sociale cominciò ad insinuarsi nella mente. Le ombre del delirio, che solo pochi attimi prima erano padrone di ogni mio neurone, stavano rapidamente sparendo regalandomi un'immagine che ancora oggi, pensando a quel momento, sento molto vicina: Umberto D, il personaggio dell'omonimo film di De Sica che, a manina tesa, sul marciapiede, chiede le elemosina. Improvvisamente da mecenate ero tornato nella mia condizione naturale: un barbone.

Devo però ammettere che, essere cittadino italiano, in quel comunque ferale momento mi è stato di grande aiuto. Aduso alla pratica pagatoria non mi scossi più di tanto e malgrado la cifra rivendicasse il santo diritto di condurmi alla pazzia, rimasi lo stesso del tutto impassibile. Quasi glaciale. Fuori. Dentro invece qualche infarto e scompenso neurologico li devo aver avuti. Ma niente di che. Dopotutto... sopravvissi.

Bene! L'iscrizione era fatta, il cuore infartuato ma impavido, l'ardore caldo ma... la sveglia a che ora?